ETF, una rivoluzione a basso costo

ETF, una rivoluzione a basso costo

Sono ormai trascorsi 20 anni da quel 30 settembre 2002 in cui, sulla Borsa Italiana, presero il via le negoziazioni dei primi ETF.
Dopo una partenza cauta e limitata a pochi scambi, la crescita di questi strumenti è risultata sempre più prorompente sino a raggiungere oggi, solo in Italia, un ammontare di masse in gestione superiore ai 100 miliardi di euro.
Nel tempo, l’industria degli ETF (o ETP nella loro categoria più ampia) sì è arricchita di numerose varianti: azionari ed obbligazionari, tematici, focalizzati su elementi fattoriali come high dividend, low volatility, quality, value o growth, ecc.), commodities energetiche, industriali e agricole, metalli preziosi e molto altro.

Un passo indietro: cos’è esattamente un ETF?
Gli ETF (Exchange Traded Funds) sono veri e propri fondi, caratterizzati da basse commissioni di gestione e negoziati in Borsa, in continua, come le normali azioni e con un prezzo che si aggiorna in tempo reale.
Gli ETF hanno come obiettivo quello di replicare fedelmente l’andamento e quindi il rendimento di indici azionari, obbligazionari o di materie prime. Inoltre, presentano notevoli vantaggi dal punto di vista della trasparenza, in quanto replicando notori indici di mercato, consentono agli investitori di essere perfettamente consapevoli del profilo rischio/rendimento dei propri investimenti e del reale portafoglio titoli a cui sono esposti.

Morningstar, la più grande società indipendente di analisi sulle soluzioni di risparmio gestito a livello mondiale, sostiene che la struttura degli Exchange Traded Fund affondi le proprie radici nel crollo di Borsa del 1987, con gli investitori istituzionali che scoprirono dalle dinamiche di questo crollo come fosse fondamentale la necessità di scambiare grandi quantità di azioni in modo rapido.
Nel 1990, una società di Los Angeles, mise in atto l’idea secondo la quale le azioni potesse essere raggruppate in un paniere, quotabile in Borsa e negoziabile come singola unità.
Nel 1990, in Canada, la società Toronto Index Participation Shares decise nel 1990 di replicare l’indice Toronto Stock Exchange 35, diventando molto popolare.
Sulla spinta di questo successo, il concetto di ETF venne ripreso anche negli Usa. Infatti, nel 1993 nacque quello che viene considerato il primo tra gli ETF moderni: lo SPDRs Etf S&P 500, che offriva la stessa performance del benchmark di riferimento, aveva commissioni molto basse e quindi era accessibile a tutti.

 

Quali sono le differenze tra i fondi e gli ETF?
ETF e fondi comuni sono accomunati dall’essere entrambi “Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio”, noti come OICR, ovvero veicoli che investono in attività finanziarie il patrimonio degli investitori. Il beneficio fondamentale è permettere un’ampia diversificazione e riduzione del rischio di portafoglio, senza incorrere in elevati costi di transazione e di raccolta di informazioni come investire direttamente in una moltitudine di titoli singoli.
I fondi di investimento classici, o Sicav, si dicono “a gestione attiva” ovvero la selezione del portafoglio di titoli da inserire nel patrimonio del fondo è a discrezione dei gestori e delle società di gestione.
A fronte di questa attività di ricerca, analisi e selezione, i fondi classici cono caratterizzati da importanti costi di gestione ed oneri (TER, il Total Expense Ratio). Inoltre, specie in Italia, l’investimento in fondi passa attraverso l’opera di collocamento e distribuzione di banche e reti di promotori finanziari, destinatari anch’essi di una quota parte delle commissioni trattenute dai fondi.
Sempre secondo una ricerca Morningstar del 2022, l’Italia rimane fanalino di coda a livello mondiale per l’onerosità dei fondi distribuiti con, ad esempio, spese medie sul comparto dei fondi azionari comprese tra l’1,9% e il 2,13% (Morningstar: Fondi comuni, i costi in Italia restano troppo alti – marzo 2022).
Gli ETF, si dicono “a gestione passiva” ovvero non presentano una selezione di titoli a discrezione di gestori e società di gestione ma puntano a replicare l’andamento di un indice con la massima accuratezza e trasparenza possibile.
Questo, offre agli investitori il grande vantaggio di sapere sempre esattamente in cosa si è investito (ad esempio, se si decidesse di investire in un ETF che replica il Ftse Mib – ovvero la Borsa Italiana – si avrebbe la certezza di investire in tutti i 40 titoli azionari italiani, in proporzioni fedeli al loro peso e capitalizzazione di mercato).
A fronte di quest’attività di investimento semplice e trasparente, costi di gestione ed oneri (TER, il Total Expense Ratio) degli ETF si aggirano tra lo 0.1% e lo 0.7%.

Rendimenti a confronto
L’eterna diatriba sulle performance di fondi ed ETF indagata a più riprese da ricerche e stampa specializzata, sul fatto di acclarare definitivamente se la gestione attiva dei fondi giustifichi costi decisamente più elevati a fronte di risultati migliori rispetto agli ETF, si confronta ormai con decenni di analisi la cui conclusioni tendono, sempre più, a fornire una sentenza pressoché definitiva: gli ETF sovraperformano i fondi nel lungo periodo.
Se nel breve termine l’incidenza di scelte discrezionali dei gestori può produrre anche forti differenze rispetto al benchmark di riferimento (anche in negativo!), nel medio-termine le scelte tattiche perdono di valore riallineando le performance, nella migliore delle ipotesi, ai rendimenti medi di mercato. Inoltre, in oltre il 90% dei casi, l’impatto evidente di maggiori costi ricorrenti sui fondi porta ad un’erosione importante dei valori investiti e quindi delle performance.
John Bogle, fondatore della statunitense Vanguard e tra i leader mondiali nel settore degli ETF, sosteneva che per gli investitori il tempo era il miglior alleato ma, in presenza di costi importanti, il tempo stesso diveniva il peggior nemico. Sulle capacità dei gestori di fondi di essere in grado di indentificare i migliori titoli e di battere il mercato con scelte discrezionali, è nota una delle sue più celebri affermazioni: